Persona, macchine, persone.

A cura di Andrea Provaglio.

Un estratto del presente articolo è pubblicato nella rubrica Alta Ispirazione del nostro magazine Evolution 5

Abbiamo tutti sotto i nostri occhi come quella che chiamiamo “Information Technology” (IT) abbia avuto un impatto sul nostro quotidiano.

Non sempre siamo consapevoli, però, delle implicazioni profonde sull’economia, sulla scienza e sulla società che hanno avuto i grandi calcolatori negli anni ‘50 e ‘60, seguiti dai personal computer, dalle reti globali di comunicazione, dai giganteschi datacenter, dai dispositivi mobili (smartphone e tablet) e per ultimo dai dispositivi indossabili (per esempio, smartwatch e visori).

Quello su cui vorrei portare l’attenzione, però, è un aspetto ancora meno noto ed evidente, legato ad una caratteristica peculiare dell’Information Technology e, soprattutto, della produzione di software.

Per software non intendo solo quello che fa funzionare i nostri smartphone, tablet e computer, ma anche tutto quello che non è così immediatamente visibile. Per fare alcuni esempi, utilizziamo software per: fare volare in sicurezza gli aerei; fare funzionare la banche; permettere la diagnostica ospedaliera e la ricerca scientifica; spostare le merci; gestire impianti di fabbriche, centrali ed abitazioni; gestire la sicurezza degli autoveicoli; e molto altro ancora (credo di aver reso l’idea).

La caratteristica peculiare a cui facevo riferimento è la seguente.

Nella storia dell’umanità, quella della realizzazione di software è stata la prima industria a produrre valore di business basandosi al 100% sul lavoro intellettuale.

Cioè, lavoro privo di manualità, come è invece la realizzazione di prodotti fisici.

Vanno però chiariti due punti:

· il primo è che sto parlando di industria vera e propria, con capitali, infrastrutture, personale, ecc.

· *il secondo è che, seppure sia evidente che per poter realizzare i propri prodotti quest’industria ha bisogno di infrastrutture fisiche quali computer, reti data center, il prodotto vero e proprio, cioè il software, è totalmente immateriale

Per questo motivo, sono circa trent’anni che chi lavora nel software si chiede come fare funzionare bene ed in modo etico aziende, persone, gruppi di lavoro e squadre che, in aggiunta alla competenza ed esperienza, operano principalmente attraverso la comunicazione, la collaborazione, la creatività, il problem-solving e l’intelligenza collettiva.

L’industria del software si pone da tempo queste domande semplicemente perché è stata la prima ad avere avuto davvero bisogno, su larga scala, di trovare delle risposte valide. Ma oggi non è l’unica.

Infatti, è interessante notare che, complice l’evoluzione della tecnologia, le domande che l’IT ha iniziato a porsi qualche decennio fa, oggi sono sentite anche da molti altri settori che lavorano con l’immateriale. Basti pensare alla finanza, al marketing, alla progettazione e così via.

Chi fa il mio lavoro ed è presso le aziende tende a osservare quanto sia pervasiva – ed inconsapevole – la mentalità prodotta dalla rivoluzione industriale, cioè quella di un modello organizzativo ottimizzato per la produzione in massa di beni materiali fisici, tramite la divisione ed il controllo del lavoro manuale.

Un modello organizzativo di questo tipo, valido per la produzione industriale, rivolto all’ottimizzazione dei costi e dei processi, al controllo della qualità e (auspicabilmente) alla sicurezza, non si mappa così agevolmente su contesti dove il lavoro non è fisico.

Non fosse altro per il fatto che il lavoro intellettuale non è immediatamente visibile, come può essere, per dire, quello di una pizzeria che sforna 500 pizze in una sera. E quello che non è visibile è anche molto più difficile da gestire.

La mentalità prodotta della rivoluzione industriale, nelle sue varie incarnazioni, è così pervasiva nella nostra società da essere presente anche nei sistemi educativi, cioè scuole e università, le quali, per poter formare in modo efficiente una grande quantità di persone (molto meglio di quando l’istruzione era accessibile solo a pochi eletti) hanno adottato dei metodi industriali.

Basta pensare alla standardizzazione del “prodotto” e del “processo”, in questo caso i contenuti formativi ed i percorsi specificati dai programmi ministeriali; oppure il “controllo di qualità” sull’apprendimento, motivo per cui esistono gli esami scolastici; o ancora, le famose prove INVALSI.

Ovviamente, lungi da me insinuare che le scuole e università sono delle fabbriche. Mancherei di rispetto sia alla loro funzione sociale che alla professionalità di chi ci lavora. Sto solo offrendo uno spunto per fare il passo successivo, e cioè suggerire che, come per i sistemi formativi, i modelli organizzativi industriali sono presenti anche in aziende o funzioni aziendali che non hanno nulla a che vedere con la produzione di massa di beni di consumo.

Un esempio tra tutti sono gli organigrammi aziendali piramidali, i quali, visti da una certa prospettiva, rispecchiamo la gestione di un processo produttivo o in un macchinario, dove qualcuno controlla, altri sono controllati e a loro volta sub-controllano e così via, fino alle ultime componenti, che sono poi quelle più operative.

Nella produzione di software ci siamo chiesti quanto questi modelli organizzativi, e gli stili di leadership che ne derivano, siano adatti al lavoro cognitivo. E la risposta che sempre più ci stiamo dando, in buona sostanza, è: “non molto”.

Sappiamo, per esempio, che l’intelligenza collettiva di un gruppo e la sua capacità di problem-solving e di innovazione derivano in gran parte da due fattori: eterogeneità dei punti di vista e dei modelli di pensiero; e da quella che chiamiamo “sicurezza psicologica”, cioè la serenità (o mancanza di essa) con la

quale chiunque può manifestare, con rispetto per gli altri, il proprio essere e le proprie opinioni, anche e specialmente quando queste sono in disaccordo con il pensiero comune o con posizioni di potere.

L’eterogeneità dei punti di vista tocca invece due aspetti. Il primo è ovviamente il livello di Diversificazione, Equità ed Inclusione (DEI) presente nel tessuto sociale dell’azienda; il secondo è la possibilità data a persone con competenze e responsabilità diverse, ma complementari, di poter collaborare in modo efficace al fine di ottenere il risultato desiderato.

Mi concentro su quest’ultimo aspetto per far notare come, in molte aziende, la divisione in funzioni o discipline, a cui siamo così abituati e che molto probabilmente abbiamo ereditato dai modelli industriali, tende a creare dei muri comunicativi, degli aggregati di persone che a volte vengono chiamati dei “silos”. Questi vengono poi rafforzati dal fatto che le persone sono valutate individualmente nel raggiungimento degli obiettivi legati al loro silos, non tanto per il raggiungimento collaborativo del risultato finale.

Per esempio, a volte le persone del marketing non comunicano veramente con quelle del prodotto (ed ognuno persegue obiettivi locali invece che sistemici); la progettazione non parla adeguatamente con l’industrializzazione; la qualità e la sicurezza non parlano abbastanza con l’ufficio legale; e finance non parla con nessuno.

Agevolati dal fatto che il prodotto software, privo di fisicità, può essere ripensato, rimodellato e ristrutturato con uno sforzo e un costo percepibili, ma comunque infinitamente più bassi di quelli di un prodotto fisico, sia esso un frullatore o una linea ferroviaria, nell’IT abbiamo iniziato da tempo a rendere questi silos più permeabili, cioè ad orientarci sempre di più verso gruppi di lavoro o squadre interdisciplinari che hanno, collettivamente, un unico obiettivo: la realizzazione ottimale del prodotto.

Va sottolineata l’importanza – direi quasi la rivoluzione copernicana – di questo approccio.

Nel modello industriale l’unità di lavoro minima è l’individuo, il quale riceve dei compiti da svolgere ed è spesso inconsapevole dell’effetto che il proprio lavoro ha sia sul lavoro di altri che sul risultato finale.

Nei modelli più recenti, abbiamo squadre che sono in grado di prendere in ingresso un’opportunità di business e trasformarla in prodotto di valore, in modo quasi totalmente autonomo. Oppure, se il prodotto finale è così complesso che una sola squadra non è sufficiente, queste sono in grado di coordinarsi con altre squadre che realizzano componenti diverse dello stesso prodotto.

In altre parole, nei modelli industriali mandiamo lavoro ai singoli, nei modelli moderni mandiamo iniziative a squadre altamente autonome, andando a decentralizzare molti processi decisionali.

Si può immaginare, quindi, come anche i modelli di leadership siano molto più evoluti.

Innanzitutto, va distinto il significato di attività manageriale e di leadership. Citando Grace Hopper, che è stata comandante della Marina americana e una computer scientist: “You manage things, you lead people” (le cose le gestisci, le persone le guidi).

L’attività manageriale è quindi un’attività complessa che deve gestire, supervisionare e controllare “cose”, siano queste contratti, infrastrutture, macchinari, capitali e quant’altro.

La leadership è invece ciò che accade nel momento in cui una persona che va o vuole andare in una certa direzione, si trova ad avere altre persone che, per propria scelta e non per obbligo, la seguono (a questo punto ci sarebbe tantissimo da dire sulla leadership distribuita, ma ci vorrebbe troppo tempo).

Se teniamo conto che in azienda, a volte, la stessa persona ha un ruolo manageriale e si trova anche ad essere in una posizione di leadership, è naturale chiedersi qual’è il tipo di leadership che abilita, supporta e promuove una cultura organizzativa basata su diversificazione, equità, inclusione, fiducia, apertura e sicurezza psicologica.

Questi sono tutti fattori abilitanti, assieme a competenza ed esperienza, dell’intelligenza collettiva, della creatività e del problem-solving, che oggi sono determinanti per la competitività e, in ultima analisi, per la sopravvivenza stessa di un’azienda.

Sicuramente, un aspetto chiave di questo tipo di leadership è il dialogo con il proprio ego e la capacità di considerare il “noi” almeno tanto quando l’”io”. Stiamo parlando, insomma, di una leadership supportiva ed abilitante, più che direttiva.

Purtroppo, i modelli organizzativi tradizionali qui non sono di aiuto – anzi – perché, cone abbiamo già detto, le persone sono valutate sul raggiungimento di obiettivi individuali, tra l’altro sempre più pressanti man mano che si sale nell’organigramma.

Ancora una volta, quindi, il modello industriale che, come per la scuole, abbiamo reso parte del DNA dell’organizzazione senza nemmeno esserne consapevoli, non ci aiuta ad affrontare le sfide del ventunesimo secolo, almeno in quei settori in cui il lavoro cognitivo è preponderante rispetto dalla produzione industriale.

A questo punto però vorrei spezzare una lancia a favore dei modelli industriali, per non dare l’impressione che io non ne riconosca il valore mentre, avendo lavorato anche con clienti nel settore manifatturiero, non è affatto così.

In ambienti produttivi manifatturieri, tantissimo è stato fatto in Toyota a partire dagli anni ‘50 con il loro Toyota Production System (TPS), da cui poi gli americani sono partiti per ideare la Lean Manufacturing.

Entrambe queste discipline, pur mantenendo una focalizzazione sulla produzione industriale, hanno una visione sistemica dell’organizzazione e del mercato, in cui la componente umana è assolutamente rilevante, al punto che il TPS è stato definito un sistema produttivo “socio-tecnico”.

Quando poi siamo passati ad avere meno presenza di lavoro fisico in favore del lavoro cognitivo ed intellettuale, abbiamo sentito il bisogno di costruire modelli nuovi, attingendo però, dove e come era utile, all’esperienza di modelli esistenti.

In questo senso – e da qui il titolo dell’articolo – siamo passati dai modelli pre-industriali artigianali, in cui il singolo individuo era detentore della conoscenza e la esercitava tramite la manualità, per passare alla rivoluzione industriale in cui l’individuo è entrato a far parte della macchina produttiva in modo quasi meccanico; per poi scoprire, in tempi più recenti, il valore dell’interazione tra persone diverse messe in grado di manifestare il proprio potenziale creativo.

Va aggiunto che questo potenziale creativo collettivo, quando messo in campo, elimina anche tutta una serie di gravi inefficienze introdotte dal voler fare lavorare in modo meccanicistico delle persone che fanno lavoro cognitivo.

Quante volte, a causa di canali di comunicazione troppo limitati o limitanti, ci siamo trovati a dover rilavorare qualcosa che avevamo già fatto? Quante volte gli strumenti di gestione che usiamo, utilissimi in un contesto industriale, ci rallentano senza dare un vero valore aggiunto?

Certo, queste inefficienze sono poco visibili e soprattutto poco tracciabili, decisamente meno che se lavorassimo con prodotti materiali, ma sono nondimeno presenti e incidono in modo significativo sul potenziale delle persone, sulla loro gratificazione, sulla qualità del loro lavoro e, per ultimo, sull’efficienza operativa dell’organizzazione, che poi si traduce anche in impatto ambientale.

Un nuovo umanesimo nelle organizzazioni, che riconosca la contemporaneità del proprio operare e sia in grado di adottare nuovi modelli organizzativi e di leadership, assume dunque una dimensione fondante non solo sotto il profilo etico, ma anche per i tre pilastri della sostenibilità: Profitto, inteso come benessere dell’organizzazione; Persone, in grado di dare in modo efficace e gratificante il loro contributo; e Pianeta, che sicuramente starebbe meglio se facessimo un uso più accorto delle nostre risorse.

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